Le Lettere “inutili” di Luciano Bianciardi, modello di rara e fraterna onestà


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il libro
Il felice compositore di lettere "senza scopo". La prima serie di volumi dell'autore – pubblicata dall'editore ExCogita – sono dedicati al periodo della giovinezza e a quello dell'ultimo decennio dello scrittore, gli anni sessanta della Vita agra
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L’editore ExCogita ha appena pubblicato il primo di una serie di volumi che raccoglieranno i carteggi di Luciano Bianciardi. S’intitola Lettere ‘inutili’, è curato scrupolosamente da Arnaldo Bruni, ed è dedicato agli scambi con i famigliari. Due i periodi più documentati: quello della giovinezza (la guerra, il bombardamento di Foggia, la Grosseto della Biblioteca Chelliana e dei cineclub…) e quello dell’ultimo decennio dello scrittore, gli anni Sessanta della Vita agra. Sulla cui sorte editoriale, nel dicembre del 1962, Luciano scrive alla sorella Laura: “Non m’aspettavo né tanto successo, né tanti unanimi consensi. Avevo scritto un libro incazzato e speravo che s’incazzassero anche gli altri. E invece è stato un coro di consensi, pubblici e privati, specialmente a Milano. (…) Questa città è vile, perché prende a calci in bocca chi sta male e si fa generosa con chi ha fortuna”. Malgrado la nausea da testi, Bianciardi è un felice compositore di lettere “senza scopo”. Forse perché non cerca alleanze o investiture da maître à penser, ma ha sempre fame di rapporti fraterni. E’ nelle situazioni conviviali che si realizza: e le lettere ne costituiscono la proiezione. Se da soldato organizza spettacoli teatrali e seduce grazie alla battuta pronta da presentatore, nel periodo milanese si accompagna coi cabarettisti. Ma lo fa, appunto, senza capitalizzare nulla o quasi.
A metà anni Sessanta, mentre Calvino migra a Parigi, Bianciardi si rifugia a Rapallo, tra il mare e l’autostrada, e con la compagna Maria gestisce perfino un negozio di libri. Il suo antipode retorico è però quel Pasolini di cui, per rallegrare il figlio Ettore, inventa una mirabile parodia fantapoetica intitolata “Marines ad Anzio”: “Cari, cari ragazzi in tuta mimetica / memoria del rozzo overall / indosso al negro che sfioccava il cotone…”. Eppure Luciano ha qualcosa in comune con Pier Paolo: il legame con la madre Adele, rigorosa maestra dal progetto educativo a suo modo riuscito, dato che fino alla fine il frenetico pubblicista le dà conto dei propri successi. Ma i successi arrivano con la schiavitù del “battonaggio traduttorio”, con la perenne tosse milanese, con la dispersione giornalistica e la depressione o “distonia” – così avrebbe dovuto intitolarsi l’ultimo romanzo – descritta da Maria ad Adele in una lettera terribile. E come per Pasolini, arrivano anche con i processi – o per oltraggio al pudore o per diffamazione. Capita pure all’amico Cassola: i modelli veri dei personaggi romanzeschi si rivoltano contro chi li ha usati. E a proposito di Cassola, si veda la bella lettera alla madre dell’agosto ’60, scritta all’uscita della “Ragazza di Bube”: “Cassola è oggi forse il miglior scrittore che ci sia in Europa. Non lo dico così per dire; io so quanto siano mediocri gli scrittori giovani di Francia, Germania e Inghilterra, e posso fare i confronti. Io non arriverò mai nemmeno a somigliargli lontanamente”. In questo carteggio, dove l’autore sprona la sorella a scrivergli di più e ricorda con gioiosa minuzia i propri giochi di bambino, prevale a volte un tono pedagogico quasi gramsciano. E del resto, Bianciardi comporrà non poche opere didattiche sul Risorgimento, modellate sulle memorie di quel Bandi che “mi mise in mano babbo quando appena sapevo leggere”.
Ma la sua lingua è un toscano forbito e ironico, il cui brio si appoggia spesso a una parafrasi dei classici. Bruni osserva che Bianciardi sopravvaluta un po’ le qualità narrative della madre e le facoltà di anglista della figlia adolescente. Io direi che nei suoi incoraggiamenti si sente il rimorso: non solo quello dell’uomo che ha abbandonato la prima famiglia, ma del provinciale piccolo-borghese che vive la propria ascesa intellettuale come hybris. “Sono un autentico manovale della carta stampata” ribadisce nell’agosto del ’70, in quell’ultimo anno in cui si riavvicina con straziante euforia ai figli, il “ciberneta” e la “capellona”; e non stacca mai se non per viaggi che forniscono l’alibi del lavoro. Mezzo secolo dopo, i lavoratori culturali sembrano frustrati perché faticano a riavere lo status che Bianciardi considerava viceversa un peccato da scontare. Anche per questo, oggi ci sembra un modello di rara, fraterna onestà.
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